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Henri Cartier Bresson era convinto di essere un surrealista: lo era realmente?

Stiamo parlando di un fotografo molto famoso, uno di quei fotografi che tutti gli appassionati di fotografia hanno già sicuramente sentito nominare. Oltre che per le sue fotografie è famoso per essere stato uno dei fondatori della cooperativa di fotografi che prende il nome di Magnum. E se siete appassionati di fotografia, avrete sicuramente sentito parlare ben più di una volta anche della Magnum e dei suoi fotografi.

Il nome di Cartier Bresson, nell’immaginario collettivo degli appassionati di fotografia, è spesso associato al mondo del reportage fotografico. Tuttavia, in una serie di interviste rilasciate al termine della sua carriera lui ha dichiarato di essere un fotografo surrealista.

Cerchiamo, quindi, di approfondire la questione…

Il surrealismo in fotografia è stato un modo di esplorare la realtà al di là della razionalità, usando tecniche e tematiche legate al mondo dell’inconscio, dell’onirico e dell’irrazionale. Il surrealismo in fotografia si è manifestato in diversi modi, mediante le tecniche della solarizzazione, del collage, dell’illusione ottica oppure scegliendo di catturare scene della realtà quotidiana in condizioni particolari, come la nebbia, la notte o il riflesso, creando atmosfere misteriose e suggestive.

Henri Cartier Bresson non praticava né la solarizzazione, né la tecnica del collage. Se Henri Cartier Bresson è stato un surrealista, come lui ha affermato in alcune occasioni, da cosa possiamo capirlo? Se guardiamo le sue immagini come possiamo catalogarlo? Era un fotoreporter o un surrealista?

L’etichetta di surrealista se l’è sentita attribuire in gioventù dal suo insegnante di pittura che osservava cosa il giovane Cartier Bresson dipingeva. Il legame tra pittura e fotografia è sempre stato molto saldo per Cartier Bresson. Era solito camminare per strada con la sua Leica in mano. Macinava molti chilometri a piedi. Lui diceva che ci sono due tipi di fotografi: quelli a cui viene mal di schiena, perché si trascinano in spalla una pesante borsa fotografica e quelli che vanno in giro con solo una macchina fotografica e, quindi, tendono a camminare molto, per cui finiranno per avere problemi alle ginocchia. Henri Cartier Bresson apparteneva a questa seconda categoria di fotografi, quelli che camminano parecchio. Macinava chilometri, finché davanti ai suoi occhi riconosceva, nella realtà, quella che era una vera e propria composizione pittorica, che lui stesso chiamava geometria. A quel punto, c’era solo un momento, un momento decisivo in cui poteva premere il pulsante di scatto per impressionare la pellicola con quella scena irripetibile.

Non era interessato a documentare un evento: il suo gioco, perché così lo si può chiamare, era quello di andare in giro per il mondo, cercando di riconosce nella realtà quelle composizioni pittoriche che aveva studiato in gioventù, guardare nel mirino della sua Leica e premere il pulsante di scatto. Henri Cartier Bresson paragonava la fotografia al tiro al bersaglio.

Prendiamo una delle sue fotografie più famose: l’uomo che salta su una pozzanghera. Non è l’immagine tipica realizzata da un giornalista che racconta un evento. Non è l’immagine realizzata da un fotoreporter che documenta un fatto. Sembra la rappresentazione di un sogno. È una situazione paradossale, poetica, surreale. Se avesse voluto documentare un fatto, avrebbe fornito l’immagine dell’uomo, fradicio nella pozzanghera, ma non lo ha fatto! Oppure avrebbe immortalato l’immagine dell’uomo che è riuscito a saltarla con successo, quella pozzanghera. È una foto che ci lascia nel mistero. Sollecita la nostra immaginazione.

Sulla questione del surrealismo Cartier Bresson era solito raccontare un aneddoto. Una volta confessò al suo amico e collega Robert Capa che lui si considerava un fotografo surrealista. Robert Capa, che era molto pragmatico, disse: senti, per me, se vuoi considerarti un fotografo surrealista non c’è problema, ma è meglio se questa cosa te la tieni per te! Quando vai dalle riviste, non dire che sei un surrealista, altrimenti non ti chiameranno più! “Piuttosto lasciati affibbiare l’etichetta di fotogiornalista e tieni il resto nel cuore”.

Siccome Cartier Bresson era una persona intelligente, seguì il consiglio di Robert Capa. Iniziò a dire di essere un surrealista, nelle interviste, solo a carriera molto avanzata, negli anni ’70. Interviste in cui spesso citava André Breton, poeta e teorico del surrealismo. Quando gli si chiedeva quali fossero i suoi riferimenti culturali, Cartier Bresson faceva i nomi di alcuni pittori e dello stesso Breton. Gli intervistatori risultavano sorpresi che non citasse altri fotografi. D’altra parte i suoi riferimenti culturali erano la pittura, le poesie di Rimbaud, i racconti di Checov o di Maupassant. Ciò non toglie che non apprezzasse il lavoro di altri fotografi. Se glielo si chiedeva, diceva che vedere una bella fotografia gli faceva venire voglia di fotografare. Oltre alla pittura, alla poesia e ai romanzi Cartier Bresson apprezzava anche il lavoro di altri fotografi, per fare alcuni nomi: Kertész, Koudelka, Martine Franck, Ian Berry, Gilles Peress, Leonard Freed, Brassaï.

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